RICORDO DI UMBERTO ECO
Quando muore un Grande, si resta come paralizzati (lo si credeva eterno…) e ci si sente orfani, soprattutto se questo Qualcuno ci è stato Maestro e lo abbiamo sentito come una guida culturale e intellettuale a tutto campo.
Ma per noi dell’Isral, Istituto storico di Alessandria, c’è di più, a farci sentire la perdita odierna così forte, a pochi mesi da quella di un amico e collaboratore come Delmo Maestri. Un qualcosa che magicamente lega Umberto Eco alla lezione di vita del nostro fondatore Carlo Gilardenghi, scomparso nel 2003, a cui abbiamo intitolato il nostro Istituto.
Quando alla fine del 2004 inviai a Eco copia del libro postumo di Gilardenghi, Cantón di rus e dintorni, insuperabile summa di “alessandrinità” verace, mi aveva risposto dopo appena due giorni con una lettera affettuosa ed entusiastica, in cui ringraziava per il “bel regalo” e rammentava che lui, adolescente cattolico, aveva incontrato “Carlino”, famigerato “comunista” (in quei “terribili anni Cinquanta”!) e aveva discettato con lui non di politica o di storia, ma di etica!
Un episodio che Eco racconta in quello straordinario carteggio con il cardinal Martini, edito con il titolo In cosa crede chi non crede? (Liberal, Sentieri, 1996). In quella lettera me ne aveva allegato fotocopia, aggiungendo “spero valga come ulteriore testimonianza alla simpatia e umanità del Nostro (che da allora non ho mai più rivisto)”
Ecco il brano in cui Eco rievoca, senza fare il nome dell’interlocutore, quel memorabile incontro:
Ero ancora un giovane cattolico sedicenne, e mi accadde d'impegnarmi in un duello verbale con un conoscente più anziano noto come "comunista", nel senso che aveva questo termine nei terribili anni Cinquanta. E siccome mi stuzzicava, gli avevo posto la domanda decisiva: come poteva, lui non credente, dare un senso a quella cosa altrimenti insensata che sarebbe stata la propria morte? E lui mi ha risposto: «Chiedendo prima di morire il funerale civile. Così io non ci sono più, ma ho lasciato agli altri un esempio». Credo che anche Lei possa ammirare la fede profonda nella continuità della vita, il senso assoluto del dovere, che animava quella risposta. Ed è il senso che ha spinto molti non credenti a morire sotto tortura pur di non tradire gli amici, altri a farsi appestare per guarire gli appestati. È anche talora l'unica cosa che spinge un filosofo a filosofare, uno scrittore a scrivere: lasciare un messaggio nella bottiglia, perché in qualche modo quello in cui si credeva, o che ci pareva bello, possa essere creduto o appaia bello a coloro che verranno.
Io trovo semplicemente stupende le riflessioni che Eco sviluppa in quell'eccezionale carteggio con il cardinal Carlo Maria Martini, ma una frase in particolare, verso la fine di un ragionamento affascinante e lucidissimo, ci sembra che possa fare da epigrafe poetica (di grande e vera poesia dell’intelligenza laica) alla dipartita di questo nostro Grande amico e maestro:
E chissà che la morte, anziché implosione, sia esplosione e stampo, da qualche parte, tra i vortici dell'universo, del software (che altri chiamano anima) che noi abbiamo elaborato vivendo, fatto anche di ricordi e rimorsi personali, e dunque sofferenza insanabile, o senso di pace per il dovere compiuto, e amore.
19 febbraio 2016 (Franco Castelli)
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