IL MAGGIO NUOVO E IL MAGGIO VECCHIO.

Intervista con Daniele Franchi, dei Maggiaioli di San Godenzo, in Mugello e Val di Sieve

 

San Godenzo, 22 maggio 2014

 

Daniele Franchi, nato nel 1957 in val Bisenzio, si è trasferito in un podere di montagna, nell’alta val di Sieve, vicino al passo del Muraglione, un rudere acquistato negli anni ’80, che ha ricostruito da sé. Ha una marroneta ed è coltivatore diretto. È stato tra gli iniziatori della rinascita del maggio a San Godenzo, il suo paese, e poi tra i fondatori dei Suonatori Terraterra (1997) e dell’associazione di ricerca e studio di musiche e tradizioni popolari La leggera (2000).

A partire dalla fine degli anni ’90 ha svolto numerose ricerche etnomusicologiche in Mugello, Valdisieve e Casentino, partecipando parallelamente come interprete a innumerevoli manifestazioni, prevalentemente in Toscana. Canta e suona chitarra e violino. Attualmente è capomaggio dei maggiaioli del suo paese. Con i Suonatori della Leggera ha partecipato alla realizzazione dei dischi Veglia a Campicozzoli, Fatto a Mano e Storie volanti (Nota Records), che raccolgono e in parte reinterpretano canti e musiche della val di Sieve.

I maggiaioli di San Godenzo non hanno mai fatto incisioni, ma hanno una pagina facebook, e ricercando su Youtube “maggiaioli san godenzo” si possono trovare diversi filmati.

 

 

Il maggio a San Godenzo come è nato, o meglio, rinato?

Dopo un paio d’anni che ero qua, dico quindi nell’87, è arrivato Enca, che abitava a Santa Sofia ma era originario del pistoiese, la zona di Maresca, nell’Appennino, dove aveva cantato il maggio con alcuni gruppi che s’erano formati lì. E dopo alcune occasioni di festa in cui si era cantato insieme (e io ero comunque già un appassionato di musica popolare) lui m’ha proposto, “perché non facciamo un maggio?” creando un gruppo di maggiaioli, mettendo insieme le risorse che ci sono in zona, perché c’era chi cantava  e chi un po’ suonava.

 

Ma tu però da bimbo di maggi ne avevi visti?

Da bimbo il maggio l’ho cantato a Vernio, nella valle che da Prato segue la vecchia bolognese, che passa da Vaiano, Vernio, Montepiano. C’era un'insegnante della scuola elementare che ci accompagnava, noi bambini della scuola, con l’aria del canto e il testo del maggio di Vernio. Si andava in giro per le case, a cantare, e in cambio ci davano cento lire, o delle uova, che poi alla fine ci si divideva, proprio come raccolto della questua.

 

Quindi non era proprio il maggio, ma un recupero fatto per i bambini?

Era un’insegnante illuminata, che l’aveva proposto nella scuola, nella classe, e questo era nel ‘65, ‘66.

 

Torniamo ora a S.Godenzo…

Era capitata questa cosa, e all’inizio c’erano Enca e sua moglie che erano molto bravi a cantare, e poi c’eravamo io e Stefano Parrini, che suonava l’organetto, con sua moglie Angela, che cantava, c’era Guagliò (al secolo Alessandro), napoletano, che s’è infilato nel mezzo da subito, eravamo sei, sette persone. E l’abbiamo fatto a Paterno di Corella, un piccolo borgo, frazione di Dicomano. I primi due anni eravamo lì, e i canti che si facevano erano in genere i canti che aveva portato Enca, e che io non conoscevo; erano i canti che facevano nel maggio pistoiese, come “Siamo sette maggerini”, un canto proprio del maggio dell’Appennino pistoiese,  poi c’era “L’inserenata”, che non fa parte dei canti del maggio, e poi “La sibilla”, un saltarello,  “Il maggio della sposa”, che invece poi ho scoperto essere il maggio più antico che si ricorda, perché le prime trascrizioni risalgono a un periodo attorno al ‘500, ed è un canto a voce sola, a cappella. In tutto avevamo cinque canzoni, e per i primi due anni s’è fatto passando per quattro o cinque case, in questa frazione.

 

Voi eravate tutti nuovi arrivati, me nelle case dove portavate il maggio c’era gente del posto, o com’era?

C’era qualcuno del posto, e una casa o due erano persone che non stavano fisse lì ma venivano nei fine settimana. Poi nel terzo anno abbiamo provato a farlo a San Godenzo, e lì è arrivato tutto il resto della gente. Principalmente erano anche qui persone di fuori, oggi li si chiama riabitanti, però c’erano anche sette otto persone del paese; quell’anno siamo diventati una ventina, perché si sono tutti inseriti in questa cosa – e a quei tempi, conviene dirlo, non c’erano ancora contatti con altri gruppi di maggiaioli del Mugello. Con questo allargamento si allargava anche il repertorio, chi veniva portava altri canti, e poi ci si metteva anche a cercare, ma sempre senza trovare canti del posto. Da quel momento il maggio è diventato un bel momento di aggregazione per i giovani della zona.

 

È lì che tu hai iniziato a fare il ricercatore di canti tradizionali?

No, questo è venuto molto dopo. E quando poi ho fatto ricerca ho scoperto che il maggio di San Godenzo era stato interrotto intorno al 1930; sono riuscito a trovare un paio di persone, non che l’avessero fatto ma che se lo ricordavano, donne che nel ’10 avevano dieci o undici anni, erano bambine, e ancora avevano visto i maggiaioli. Però in genere nessuno si ricordava di queste cose. Mentre nel Mugello il gruppo che ha ripreso all’inizio degli anni ’70 è stato a Barberino, loro sono stati i primi; perché comunque con il periodo della guerra s’era interrotto tutto, e anche dopo la gente ha cominciato ad andar via dalle campagne e non c’era più il contesto in cui certe tradizioni avevano un senso. L’hanno ripreso dopo: delle persone che l’avevano fatto prima della guerra e hanno riportato questa cosa, e alla fine in quasi tutti i paesi del Mugello c’era un gruppo di maggiaioli, c’erano a Scarperia, a Sant’Agata, che è una sua frazione, a Vicchio, a Borgo, a Barberino si sono riformati dei gruppi, e questo processo di ricostruzione dei gruppi è durato dagli anni ’70 all’inizio degli anni ’80. Però, rispetto al maggio tradizionale, la cosa era già un po’ cambiata, perché nel maggio tradizionale c’era una canzone del maggio, poi c’erano i rispetti, la richiesta del permesso, i ringraziamenti, mentre dopo sono stati inseriti anche canti che non avevano a che fare con la tradizione del maggio. Si venivano cioè a formare dei piccoli spettacolini nei posti dove si andava,  perché chiaramente il contesto era molto cambiato. Prima il maggio era fatto da ragazzi molto giovani, diciottenni, ventenni, che partivano a buio e facevano tutta la notte. Giravano durante tutta la notte buttando giù dal letto le varie persone.

A San Godenzo, come dicevo, c’è stato all’inizio un problema di integrazione, perché essenzialmente il gruppo dei maggiaioli che aveva ripreso a far maggio, erano persone non native del posto, e in questi paesi piccoli di montagna c’è sempre molta diffidenza nell’accettare qualcosa e qualcuno che viene da fuori. Nei primi anni – e vuol dire 6-7 anni – c’è stata poca risposta di persone che ci seguivano. C’era la Piera, che è stata una delle prime che ci veniva dietro per sentirci cantare - perché noi si andava in giro per il paese e chi capitava di vedere affacciato alla finestra glielo si cantava, non c’erano tappe organizzate a quel tempo.  Si andava in giro così. Però appunto, all’inizio è stato difficile; poi piano piano la cosa si è inserita, e si è coinvolta sempre più gente. Anche noi ci siamo inseriti nel paese, anche attraverso i figli che andavano a scuola, per cui è stata una cosa che dopo è entrata, entrata in pieno.

 

Se tu dovessi presentare il maggio che c’è ora, come lo definiresti?

Il maggio, rispetto a quello che poteva essere una volta, per come viene fatto adesso, è molto lontano, perché prima di tutto manca il contesto di prima. Prima aveva un significato molto forte, mentre ora non solo non c’è più il mondo contadino, ma non c’è nemmeno più un tipo di vita che dà valore a queste cose, perché di fatto il tuo andare a portare un buon augurio per il raccolto, per gli animali, per la famiglia, per le figlie, che andassero in sposa, erano comunque cose sentite dalle persone che le vivevano sulla loro pelle, nella vita quotidiana. Oggi queste cose di fatto sono molto lontane, perché la gente che vive della terra ora le conti sulle dita di una mano. Inseriti in un altro contesto quei significati si perdono o vengono stravolti.

Resta il fatto comunque che si è creata e si porta avanti una situazione, e questo credo che sia il valore più grande di questa esperienza che continua ancora, che è riuscita a mettere insieme persone diverse, che altrimenti nella vita è difficile si ritrovino per fare cose insieme; poi c’è il fatto di riuscire anche ad accettare le diversità e darne un valore; sì, per me il valore più grande è questo, e farlo anche col sentimento. Che forse negli ultimi anni si è un po’ perso, ma nei primi anni questo sentimento era molto più forte, questa cosa per cui tu portavi qualcosa a queste persone e loro ti davano in cambio da bere e da mangiare, un rito ma non soltanto - vorrei dire che c’era qualcosa di spirituale, e non trovo una parola migliore. Un sentimento di scambio, una cosa molto intensa, e proprio questo mi sembra si stia un po’ perdendo, perché andare a cantare il maggio mi pare sempre di più una cosa spettacolarizzata, più un fare lo spettacolino e non il fatto che arrivi in quella casa, e ti riferisci a quelle persone e alle cose che fanno loro e crei un rapporto.

 

Però lo spettacolino, se prende il sopravvento, avrà una sua funzionalità, in qualche maniera è importante, non trovi?

Certo, diventa comunque un momento autogestito, condiviso, partecipato, che ha senz’altro un valore positivo. Segue un po’ lo sviluppo della società, che tende a dire le cose in un modo più di facciata, appunto a spettacolizzare, per cui fai meno tappe, si canta più a lungo in uno stesso posto, si cantano anche tante altre canzoni, e non è più solo il maggio. È sparito piano piano la sensazione di andare in quella casa e quelle persone per portare il maggio, l’augurio…

 

Però chi vi assiste dice che questo maggio di San Godenzo ha mantenuto una certa freschezza - anche perché non fate nessun tipo di pubblicità, e la gente che viene da fuori sono praticamente solo pochi amici…

Purtroppo facendo il maggio qua non ho mai modo di vedere come li fanno da altre parti, quelli del trenta aprile intendo. Da quanto ho potuto capire, dappertutto il trenta non c’è il mercatino, e anche gli altri fanno il giro, e solo successivamente fanno la festa con le bancarelle, magari la domenica. Anche qui si è provato a fare qualcosa che era staccato dal maggio, due volte abbiamo provato a fare feste che erano collegate al mercatino del biologico  o dell’artigianato, però a quel punto non facevi le canzoni del maggio ma altri canti. Ma se i canti del maggio si fanno tutto l’anno fuori contesto, poi quando arriva il loro momento hanno perso tutto il loro valore e significato. Quello che io ho vissuto, almeno nei primi dieci dodici anni, è che c’è anche questa parte un po’ magica, un’energia forte, che cresceva durante la sera, quando partivi...

 

Certo, c'è il camminare al buio per la campagna, su sentieri magari un po' sconnessi, le voci, portare in giro nella notte la musica, e questa sensazione di partecipare a una sorta di corteo pagano...

E poi naturalmente anche attraverso il vino, che bevevi di casa in casa. Ma cresceva anche dalle situazioni che si creavano, ti davano un’energia, c’era una corrispondenza con le persone con cui andavi a portare il maggio, diventava un crescendo e poi, alla fine del giro delle case, con quello che si era raccolto si andava nella casa di qualcheduno dei maggiaioli a fare la nottata.  Anche perché oggi non è più verosimile che tu vada nel cuore della notte davanti a una casa a cantare il maggio, ti buttano l’acqua dalla finestra. Una volta invece si faceva perché lo ritenevano importante anche loro, che lo ricevevano per avere il buon augurio, se no portava male, davvero, per il raccolto, per il parto degli animali.

E tutto questo la gente però non se lo ricordava più, per cui la si è dovuta rieducare, proprio informare le persone su com’era e come avveniva, e questo è un lavoro che abbiamo dovuto fare, spiegare alla gente che ci accoglie come funziona. Ma comunque sia, nel momento in cui cambia il contesto, quel canto lì perde la funzione.

 

Parliamo un attimo del pubblico: vecchini commossi, gente di mezza età che comincia a capire lo spirito del maggio dopo non essere mai stata coinvolta più di tanto, e poi ragazzi, bambini…

Come maggiaioli di san Godenzo si è avuta molta risposta anche dai ragazzi, forse perché quando si è iniziato si era abbastanza giovani anche noi. E anche l’impostazione del maggio, essendo giovani, era abbastanza… come dire?, abbastanza carica, sia a livello ritmico, che di movimenti delle persone, perché io ho sentito ultimamente il maggio che fanno ora a Firenzuola, è un maggio molto lento, con delle frasi lunghe…

 

Quindi forse là è più vicino a come era il maggio un tempo?

Sì, noi al confronto siamo molto più veloci, rispetto a come cantavano una volta. Perché se si ascoltano i canti da chi ancora era dentro a quel tipo di cultura, che sa come venivano fatti prima della Seconda guerra mondiale, la prima cosa che si percepisce è la lentezza del modo di cantare. Ad ascoltare oggi quel modo, dove anche il canto è molto disteso, da tante persone che non sono educate a quel tipo di cultura, non viene compreso, e può sembrare noioso…. Mentre da noi, essendo nato tra i giovani, poi venuti anche da fuori, e che in gran parte non venivano nemmeno dal mondo dalla tradizione contadina, per cui non avevamo dentro come conoscenza le arie e le storie di quello che era prima, è stato subito diverso. Il nostro maggio è  stata una cosa nata dal niente, perché è nato dalla situazione che c’era qui: dalla voglia di alcune persone a cui piaceva cantare la musica tradizionale e popolare, di mettersi insieme e fare questa cosa.

 

Però questo sempre assumendo da un lato i caratteri e dall’altro i contenuti della tradizione, o no?

Questo non è venuto subito, si è sviluppato dopo.

 

E poi, comunque, non c’era il fatto che diversi avevano fatto come te scelte di vita contadina e di montagna? Non c’era quindi anche la ricerca di un’identità culturale?

La scelta era già stata fatta prima di arrivare qua… e all’inizio gran parte della gente che partecipava non è che fosse interessata alla musica popolare. Il gruppo non è nato dal legame con la cultura tradizionale, all’inizio era più una situazione di festa, di fare baraonda, era quello che poi riusciva ad accomunare, attraverso questa pratica, persone diverse. Poi cantare insieme è liberatorio, è anche bello, insomma. Qui a San Godenzo ha avuto questa sua connotazione, e solo dopo diversi anni alcuni di noi hanno approfondito e hanno capito i reali valori di quello che si stava facendo, per cui hanno anche iniziato a porsi delle domande su come fare le cose. Mentre in altre situazioni, come a Barberino, c’è stato un personaggio, di cui ora non ricordo il nome, e lui era uno che l’aveva fatto, era un portatore della tradizione orale, che ha insegnato agli altri come fare. A Vicchio  è stata una situazione simile alla nostra, venivano da fuori, con questo Massimo che poi era il trascinatore e ora è morto da qualche anno, ma lì sono stati gli anziani a spiegargli come andava fatto il maggio; sono stati loro a chiedergli di andare a farlo di notte. E  Vicchio è stato l’unico posto in cui, fino a qualche anno fa, facevano il giro di notte, però perché erano d’accordo e gli altri lo sapevano, erano consapevoli e volevano riviverlo in quel modo. Mentre San Godenzo è stata una cosa completamente diversa, è nato da una situazione che non era legata al territorio, ma soltanto alla passione di alcuni.

 

Col passare degli anni tu però hai iniziato a fare ricerca; e poi vi siete anche messi a fare i rispetti, arrivando anche al punto di comporre canzoni per il maggio di San Godenzo, che parlano proprio del territorio e della sua gente.

Nel momento in cui questa cosa comincia ad appassionarti cominci a chiedere in giro, agli anziani, si arriva cioè a prendere contatto con la cultura orale, a farne la conoscenza. Ma la trasmissione della cultura orale si è interrotta negli anni ’60: fino al primo dopoguerra ancora c’era, ma poi c’è stata la fuga dalle campagne, la televisione, e tutto il resto, per cui quel modo di trasmettere le conoscenze è andato perso. A quel punto, dopo una quindicina d’anni, c’è stato l’inizio della ricerca, andare a parlare con gli anziani, sulla vita e sui canti che facevano, quindi a recuperare i canti, ed essendo cultura orale o li si recuperava in quel momento, o andavano persi con la scomparsa dei portatori.

E poi, nel momento in cui si comincia a capire i vari tipi di canto, le varie funzioni che hanno, e cosa voleva dire cantare un rispetto, allora si comincia a usare quegli strumenti, perché impari a capire come funzionano e puoi iniziare a usarli, sei consapevole di quello che stai facendo. A quel punto s’è cominciato a comporre i rispetti, a comporre dei canti. Però il passaggio indispensabile è stato la conoscenza: quello che all’inizio non potevamo fare, e che è stato più l’impeto e la passione per il canto, senza però porsi questioni sull’aspetto culturale di quello che si stava facendo. Dopo, quando si è cominciato a parlare con gli anziani, a capire non solo il canto che si faceva ma anche il contesto che ci stava attorno, come si viveva, come si lavorava, ci si sposava, incontrava, allora entri dentro quella dimensione di vita di ieri, e quei canti che hai fatto fino a quel tempo assumono anche un valore diverso, perché ti rendi conto anche di quello che vogliono dire certe frasi, che prima magari non capivi perché non sapevi cosa ci stava dietro, che poi non è altro che "la loro vita". 

Così mi sono trovato a intervistare, e la prima intervista l’ho fatta a un anziano che era stato pastore, e solo allora vieni a sapere della vita che lui ha fatto per tanti anni: per nove mesi l’anno era in giro con le pecore, partiva a settembre e tornava a giugno. Partiva e piano piano si avvicinava alla Maremma, arrivava in Maremma, poi piano piano ritornava, e stava fuori nove mesi per starne tre a casa. I boscaioli invece stavano fuori cinque sei mesi, d’inverno, perché d’inverno, qua sull’Appennino – un tempo faceva molta più neve di adesso, e anche nei boschi, non c’era da tagliare i boschi qua in montagna, come ora - gli animali erano in stalla e il fieno era fatto, non è che c’era tanto lavoro. L’unico modo di guadagnare soldi era unirsi alle squadre che andavano in Maremma, in Sardegna, in Corsica, e andavano a tagliare il bosco vivendo nelle capanne dei boscaioli.

 

Torniamo ai tempi che cambiano: ora ci sono giovani che arrivano in fuga dal mondo civile, e cercano di stabilirsi da queste parti. In rapporto al maggio sono curiosi, verso questa cultura contadina ricomparsa, cercano di partecipare, ricercano questa antica cultura? E che valenza ha per loro?

In questo momento io non vedo questo gran ritorno, c’era molto di più negli anni ’80. Anche perché adesso è molto più difficile riuscire a farlo, rispetto a quegli anni. Ci può essere un interesse, perché la musica popolare ha il suo fascino, di essere un testimone di quella cultura, se le persone stanno ad ascoltare è segno che è una cosa che gli interessa… però secondo me se tu non sei a conoscenza anche del contesto in cui queste cose  sono nate, sei lontano mille miglia dal significato di quelle cose. Finché non ho iniziato ad andare in giro a fare interviste e a parlare con gli anziani non mi rendevo conto di quello che stavo facendo e del modo in cui lo stavo facendo. Perché il modo in cui vivevano in quei tempi oggi non ce lo immaginiamo nemmeno. Non lo possiamo immaginare: hai bisogno di entrarci dentro, e per questo penso ci sia una distanza sempre più grande, anche perché ormai i portatori di queste conoscenze sono oltre gli ottant’anni, vicini ai novanta, stanno cioè estinguendosi. Hai anche poche possibilità, in genere puoi parlare con la generazione successiva, quella che per la maggior parte si è staccata, a volte anche con disprezzo, perché i figli hanno lasciato quell’ambiente lì come un ambiente di fatica, di sudore, di vita misera, in condizioni quasi di schiavitù com’era la mezzadria, perché il padrone aveva anche dei poteri su di te: anche se non erano scritti, di fatto ti poteva costringere a fare tante cose, perché se tu perdevi la terra facevi la fame, mentre se avevi il podere, per quanto ti facevi il culo, di fame non morivi.

Per un giovane oggi mi sembra molto arduo avvicinarsi a una cosa del genere, devi avere proprio una voglia, una volontà di andarla a cercare; altrimenti si tende oggi a consumare le cose in maniera molto superficiale, e allora vedi che i canti che più riescono sono quelli che hanno più ritmo, che hanno un testo più accattivante, mentre tutti i canti più lenti, e tra questi ci sono i lamenti, ci sono le ottave, i canti di una volta, che erano anche più lunghi e richiedono un’attenzione e una conoscenza anche delle cose per capire il testo, come dicevo oggi diventano noiosi, spesso incomprensibili,  e questo penso sia inevitabile. Quindi non so davvero quel che può essere la musica popolare oggi, dimmelo tu, cos’è?

 

Intervista di Luca Vitali, foto (San Godenzo e La Rata, 2011) di Sara Spönemann