Articolo di Lucio Niccolai pubblicato su TOSCANA FOLK  Periodico del Centro Studi Tradizioni Popolari Toscane anno XXIX n° 25 aprile 2020

Ringraziamo Alessando Bencistà direttore di Toscana Folk, Corrado Barontini, ricercatore che ha raccolto e registrato il canto e Lucio Niccolai autore dell'articolo per averne concesso la pubblicazione anche sul nostro sito.

sopra: Manifestazione bracciantile in Maremma

foto a fianco: Il vecchio stendardo della Lega Colonica di Ravi e Caldana


Vien la primavera: una testimonianza canora del mondo mezzadrile

 di Lucio Niccolai[1]

 

 

L’occasione

Il canto di tradizione orale è, per sua natura, anonimo, normalmente privo cioè dell’autore o degli autori che l’hanno elaborato (o abbozzato) per primi.[2]

Si conoscono però, spesso, gli informatori, i raccoglitori e i ripropositori che hanno consentito a quel repertorio di sopravvivere e di essere riutilizzato al di fuori dei contesti di produzione. Per questo sarebbe generalmente utile che chi ripropone il repertorio tradizionale fornisca elementi di contestualizzazione dei brani eseguiti. Così, almeno, cerco di fare sempre io, con I Badilanti, ogni volta che è possibile. Presentando, ad esempio, Vien la primavera, ricordo sempre Igino Paris, un minatore castellazzarese[3] che per primo cantò la canzone a Corrado Barontini, dal quale l’ho imparata. L’ho fatto anche a Montemerano, in provincia di Grosseto, il 13 luglio, in occasione di un concerto organizzato dall’Accademia del Libro. Appena terminata l’esibizione, due signori (dicono di far parte di un coro di Pisa) si avvicinano cortesemente per dirmi di sapere per certo che quella canzone è di Alfredo Bandelli. Faccio mente locale e cerco di ricordare, senza successo, se mai, tra le cose di Bandelli – molte delle quali canto da anni – possa esserci anche Vien la primavera. La mattina dopo, consulto vari canzonieri[4] e scorro gli indici di copertina di decine di CD (canti popolari e di lotta) senza ottenere alcun riscontro.

Le note biografiche dell’autore – Bandelli, che ha collaborato con il Canzoniere pisano e inciso un solo LP[5] – rimandano a un ambiente operaio, a una precisa collocazione politica (Lotta continua), a uno specifico contesto storico e culturale (il Sessantotto e i primi anni Settanta) con cui poco ha a che fare una canzone come Vien la primavera che, è evidente, rimanda invece a un mondo – quello mezzadrile – già definitivamente scomparso in quegli anni. 

 

La mezzadria e il “Biennio rosso” in Maremma

La mezzadria era un contratto agrario nel quale un proprietario terriero (concedente) assegnava al colono e alla sua famiglia un’area poderale, dotata di struttura abitativa, con un’estensione sufficiente a garantirne la sussistenza alimentare e la sopravvivenza economica. Il colono, che aveva diritto alla ripartizione del 50% dei prodotti, si impegnava a lavorare il fondo ricevuto e partecipava con i familiari alle spese di gestione. Si trattava di un tipo di contratto agricolo, particolarmente diffuso in Toscana, che «fin dalle origini aveva sfruttato la naturale viltà del povero che nulla possiede fuorché le proprie braccia e quelle della moglie e dei figli e in questa condizione di indigenza estrema si vede dal padrone concedere tutto: un tetto, spesse volte orribile e mezzo diroccato ma pur sempre gratuito, lì, sul posto di lavoro che bene o male gli consente di ripararsi dalle intemperie, la terra, le piante pregiate (olivi, viti, alberi da frutto), il bestiame che della casa occupa la parte più spaziosa e meglio protetta, e infine gli arnesi stessi del lavoro.»[6]

Già diffusa nella Toscana centrale fin dall’età medievale, fu introdotta anche in Maremma solo in tempi più recenti. Nel periodo risorgimentale un’azione pionieristica in questo senso fu portava avanti dai fratelli Ricasoli, ma fu solo dopo l’Unità d’Italia che la mezzadria si affermò decisamente anche nel territorio maremmano tanto che, nel decennio 1911-1921, i mezzadri arrivarono a rappresentare il 27% degli occupati[7] e il loro numero crebbe, parallelamente al diffondersi dell’appoderamento nelle aree pianeggianti, in conseguenza delle bonifiche integrali volute dal fascismo che modificarono profondamente la vecchia immagine della Maremma.  

La condizione dei mezzadri subì però un decisivo peggioramento (carenza di braccia lavorative nelle famiglie coloniche) nel corso della I guerra mondiale e poi, soprattutto, nella fase immediatamente postbellica. «Versando il loro tributo ai proprietari sotto forma di prodotti e nella stessa quantità del passato, [...] i coloni pagavano di fatto un canone il cui importo monetario, nella situazione economica del dopoguerra, era divenuto assai maggiore di prima. Erano infatti saliti sensibilmente i prezzi dei generi agricoli. Di tale incremento potevano beneficiare largamente i padroni, che riscuotevano la loro rendita in derrate, in quanto potevano venderne la maggior parte, ma poco i contadini, le cui eccedenze rispetto alla quota versata come corrisposta erano ancora largamente assorbite dall’autoconsumo. Inoltre, il prezzo dei generi industriali acquistati dai contadini tendeva a salire in misura superiore al prezzo dei pochi prodotti agricoli che essi potevano commerciare. [...] Mentre peggiorava perciò il rapporto del reddito di lavoro contadino nei confronti della rendita e del profitto dei concedenti, peggiorava anche la condizione retributiva dei contadini rispetto a quella dei salariati. Ciò si verificava nella stessa misura in cui questi ultimi riuscivano, invece, a conseguire aumenti salariali che tenevano il passo con l’aumento dei prezzi o addirittura lo sopravanzavano.»[8] 

Fu in questo contesto che si formarono Leghe coloniche anche in Maremma; mentre le Leghe bracciantili promuovevano l’occupazione delle terre incolte e dei latifondi e i minatori intraprendevano una lunghissima battaglia (135 giorni) e l’occupazione delle miniere, anche i mezzadri maremmani scesero in lotta per reclamare sostanziali miglioramenti contrattuali.[9]

«La Federterra provinciale [...] aveva inviato a tutti i proprietari di terre condotte a mezzadria, affitto e colonia, un memoriale che richiedeva la validità triennale del contratto, il divieto di disdetta senza legittimi motivi (giusta causa), la partecipazione del contadino alla direzione dell’azienda e l’abolizione di tutte le regalìe, nonché una correzione nella ripartizione dei prodotti. [...] Nei quaranta giorni di trattativa e in particolare nei momenti più difficili, la Federterra e le leghe rosse riuscirono a bloccare tutte le attività agricole proprio nei mesi in cui queste erano più intense, grazie all’unità tra braccianti e coloni. [...] I rappresentanti degli agrari furono costretti a firmare il patto [6 agosto 1920], ma alcuni proprietari maremmani, che poi si distingueranno per l’adesione al fascismo e nell’organizzazione delle squadre, non lo riconobbero.»[10]

Il movimento mezzadrile conobbe forme di grande partecipazione, come dimostra l’adesione massiccia (2300 lavoratori della terra della provincia di Grosseto) allo sciopero regionale del luglio 1920[11]e la solidarietà reciproca attivata dai mezzadri, e tra questi e i braccianti, in occasione degli scioperi del raccolto e della trebbiatura,  ma anche momenti di altissima tensione come testimoniano – tra tutti – i fatti di Civitella Marittima, dove, per impedire uno sfratto colonico, il 14 ottobre 1920, una folla di braccianti e mezzadri invase, saccheggiò e distrusse l’abitazione del proprietario terriero che si era reso colpevole del mancato rispetto del patto colonico sancito con l’accordo del 6 agosto del 1920, in materia di disdetta.[12]

Interessante e singolare anche il fatto che in Maremma – a differenza di quanto succedeva in altre parti della Toscana – le Leghe coloniche fossero egemonizzate e guidate dai “rossi”. Preziosa in questo senso la testimonianza di Argentina Altobelli, Segretaria nazionale della Federterra, che nel 1919, nella relazione al V congresso, ricordava: «Il lavoro si iniziò nella Maremma toscana, dove traverso uno sciopero grandioso che arrestò la trebbiatura in tutta la Val di Cornia, riuscimmo a concordare un patto colonico notevole per le conquiste morali e materiali. […] Dalla Maremma toscana l’organizzazione si è estesa rapidamente nel Grossetano, nell’Aretino e mentre scriviamo ci giungono inviti da ogni parte della Toscana.»[13]

 

Vien la primavera: un canto di mezzadria

È probabilmente in questo contesto che nasce una canzone come Vien la primavera di cui è opportuno, a questo punto, leggere il testo:

 

Vien la primavera,

fioriscono bei fiori,

chi non lavora so’ tutti sfruttatori

 

cielo, mare e terra che ci appartiene a tutti,

su compa’, che liberi siam già,

che liberi siam già, che liberi siam già

 

viene l’estate

che si raccoglie ‘l grano,

chi ha lavorato ha lavorato invano

 

cielo, mare e terra …

 

viene ‘l settembre,

si raccoglie ‘l granturco,

viene ‘l padrone e se lo prende tutto

 

cielo, mare e terra …

 

viene l’ottobre

che si raccoglie l’uva

chi ha lavorato la beve l’acqua pura,

 

cielo, mare e terra …

 

viene l’inverno,

comincia a nevicare,

l ricco n poltrona, l povero a lavorare

 

cielo, mare e terra …

 

Il canto è bello e ha una sua decisa forza espressiva. I versi presentano strofe caratterizzate da una successione di versi senari o quinari, settenari e dodecasillabi, con rime baciate (o assonanze) nel secondo e terzo verso; frequenti anafore, ripetizioni e allitterazioni che contribuiscono a costruire la musicalità della struttura. Nel ritornello, la musicalità è giocata soprattutto sulla ripetizione di un’intera frase (che liberi siam già) che produce anche un effetto ritmico. Le modalità di esecuzione richiamano una tipologia abbastanza tradizionale (usata normalmente nei periodi dei lavori collettivi): la prima voce (il I verso di ogni strofa) dà l’incipit invitando altre voci a unirsi alla sua; il coro si infittisce di voci, chiamando i compa’ a partecipare al canto. Ogni strofa contrassegna i tempi stagionali del lavoro colonico (primavera, estate, settembre e ottobre) indicando i raccolti agricoli meglio caratterizzanti il periodo. Esplicita la contrapposizione tra chi lavora la terra e il proprietario che, alla fine, ne gode i frutti. È proprio questo riferimento al calendario agricolo e il fatto che si parli sempre di prodotti della terra e della loro ripartizione piuttosto che di retribuzioni, che fa ritenere il canto ispirato al mondo mezzadrile anziché a quello bracciantile salariato (che comunque non poteva non riconoscersi nei temi dominanti della canzone). D’altra parte, le strofe del canto sembrano alludere a un impegno lavorativo continuativo, che certamente non è quello del bracciante chiamato al lavoro in periodi stagionali precisi (mietitura, vendemmia) come si deduce anche dall’ultima strofa dedicata al periodo invernale, quando il colono presidia comunque il podere e svolge varie attività che non necessitano di manodopera bracciantile. Interessante anche il riferimento al granturco, la cui coltivazione in Maremma si diffuse solo dopo gli anni ’70 dell’Ottocento[14] anche per volontà padronale: il granturco rendeva – in termini di quantità di prodotto per estensione coltivata – più del grano, ma forniva un alimento meno completo dei cereali. Un suo consumo esclusivo poteva provocare seri problemi sanitari, come la pellagra.

Il ritornello (Cielo, mare e terra / che ci appartiene a tutti) riecheggia motivi ricorrenti nei canzonieri anarchici e temi evocati anche nei materiali di propaganda come dimostra, ad esempio, questo manifesto affisso a Farnese in occasione del 1° maggio del 1919: «Lavoratori! / I tempi si maturano, è l’ora della grande rivendicazione! / Il Primo Maggio (Pasqua dei lavoratori) è prossimo. Pasqua dell’insurrezione, la Pasqua della vendetta. / Lavoratori!!! [...] La terra è vostra, il mondo è vostro ed il potere deve essere in mano di chi lavora.»

Il verso che liberi siam già, più che l’affermazione di una condizione effettiva, sembrerebbe indicare un’aspirazione (la libertà dallo sfruttamento) da conquistare uniti (da qui l’incitamento del ritornello).

Il verso chi non lavora so’ tutti sfruttatori della I strofa non solo sembra richiamare un preciso periodo storico,[15] ma riecheggia anche temi presenti in altri canti di ispirazione mezzadrile, come ad esempio il Contrasto tra Pasquino e il padrone, «A me mi bolle il sangue come una fornace, / non so' come mio padre che ha paura: gli prende il grano e acconsente e tace / e tutta l'uva quando l'è matura» e il Lamento dei contadini «E dopo tutte queste persone / la mezza parte tocca anche al padrone; e per dirvela allora lesta lesta: / a noi contadini nulla ci resta!», citati da Mariano Fresta in uno studio del 1980.[16]

 

Che c’entrano i minatori?

Resta da chiarire la ragione per la quale un canto di mezzadria possa essere stato tramandato, conservato, riproposto e cantato da minatori, come appunto era Igino Paris che pure doveva aver conosciuto da vicino – stando alle scarse notizie biografiche – anche il mondo contadino e mezzadrile. In realtà – nel periodo del Biennio rosso – non solo una forte solidarietà di classe legava i minatori ai braccianti e ai mezzadri, ma spesso la loro lotta si svolgeva su piani paralleli contro quello che, direttamente o indirettamente, era spesso un identico padrone. Infatti, le Società minerarie, a partire dalla prima metà del Novecento, cominciarono ad appoderare le loro vaste proprietà terriere introducendovi forme di gestione mezzadrile. Le proprietà fondiarie diventavano così un’“appendice agricola” che integrava i già lauti profitti minerari. È il caso, ad esempio, nell’area amiatina, delle zone del Siele (1500 ettari), di Cortevecchia (una quarantina di poderi) e di Selvena. Altri fondi appoderati e gestiti a mezzadria appartenevano a notabili e professionisti spesso collegati (anche politicamente) alle società minerarie.

 

Conclusione

In un momento – come quello attuale – in cui i testimoni e gli informatori diretti del repertorio tradizionale sono ormai scomparsi (e con loro, le realtà nelle quali i canti trovavano la loro ragione di essere), la conservazione della memoria attraverso la corretta utilizzazione delle fonti e la divulgazione di opportune informazioni sui repertori proposti implica la comprensione e la conoscenza dei materiali trattati. Solo così, la riproposizione dei repertori tradizionali (destinata inevitabilmente a mutare nel corso del tempo) può essere utile a restituire il senso di una testimonianza consapevole, utile anche a comprendere le realtà in cui i canti stessi sono nati e hanno trovato una propria specifica funzione.

 

Vien la primavera: l'"allegra filologia" di un canto popolare[17]

 

Vien la primavera è un canto raccolto a Castell’Azzara nel 1976 da Corrado Barontini. L’informatore, Igino Paris (1926-1984), era allora un minatore (ma era già stato bracciante agricolo e avventizio forestale nei “cantieri Fanfani”), sposato con Elgisa Rustici dell’Orienti, frazione di Sorano prossima a San Giovanni delle Contee. Era amico intimo del maestro Vicarelli, noto ricercatore (autore, tra l’altro, di una raccolta di Serenate, canzoni e sogni nel 1968), storico locale, maestro elementare e direttore della banda, con il quale si accompagnava tutte le sere all’osteria di “Mondo”.

Secondo l’informatore, la canzone rappresentava un inno alla primavera, senza nulla togliere alle rivendicazioni sociali contenute nel testo che sottolineano chiaramente gli ideali di lotta contro il padronato terriero.

La prima esecuzione del Coro degli Etruschi fu presentata, registrata, alla trasmissione “Dalle parti nostre”, condotta da Leoncarlo Settimelli, che andò in onda in prima serata su RAI 1 da ottobre a dicembre del 1976. Il testo fu pubblicato nel 1978 nel libro Canti popolari in Maremma con questa nota esplicativa: «Estendendo la ricerca alle zone più lontane della Provincia si è potuto raccogliere questo bellissimo canto che è fra i pochi a contenuti sociali o comunque politici da noi recuperati. [...] La tradizione dei canti si arricchisce di questi temi introducendo i primi elementi di sensibilizzazione nei confronti dello stato di sfruttamento determinato da rapporti arcaici nella condizione del lavoro agricolo.»[18]

Il Coro degli Etruschi ha inciso una sua versione del canto nell’audiocassetta Festa di Maggio (Ed. Tellini, Pistoia, 1986) e nel CD La Maremma inCanta (Pegasus, Firenze, 2003). Successivamente altri gruppi hanno registrato il brano. Così ad esempio, il Coro dei Minatori di Santa Fiora nel CD allegato al mio libro[19] del 2005 dove scrivevo: «Particolarmente bella e significativa in questo contesto di canti dalle forti connotazioni sociali, Vien la primavera, una canzone raccolta nell’area di Castell’Azzara da Corrado Barontini.» e il gruppo di Riccardo Raspi di Volterra nel CD autoprodotto Che liberi siam già - Dentro e fuori le mura[20] che dimentica però di ricordare non solo la fonte (Igino Paris) ma anche il raccoglitore (Corrado Barontini) annotando semplicemente: «Il testo raccolto a Castell'Azzara (GR), legato agli impegni stagionali della vita del contadino, è rappresentativo delle lotte e rivendicazioni del mondo operaio e contadino che si svilupparono, anche in Toscana, agli inizi del '900». I Briganti di Maremma ne propongono una versione nel CD autoprodotto, Bella se voi venì... piglia la tua, del 2012. La formazione grossetana, che pure dovrebbe ben conoscere il lavoro di Corrado Barontini, scrive nella presentazione: «Questo canto, di autore anonimo, rientra tra quei canti di protesta politica e sociale sorti nel secondo dopoguerra (1945-62), incentrati sul tema della denuncia delle condizioni di lavoro del bracciantato agricolo in Toscana». Forse, basandosi, per la compilazione di questa nota, più che sui testi di Corrado, sulle informazioni pubblicate dal sito online «Il Deposito» (per altri versi lodevole) che attribuisce il merito di averlo raccolto, nel fiorentino, a Caterina Bueno, e lo considera un «canto […] di denuncia delle condizioni di lavoro del bracciantato agricolo» ascrivibile al periodo della «ricostruzione e [del] boom economico (1946-1966)». In realtà Caterina Bueno non ha mai interpretato questo canto e, anzi, quando Corrado, negli anni Settanta, le fece ascoltare la registrazione di Igino disse di non averlo mai sentito prima e di non conoscerlo. Tra l’altro, anche il testo pubblicato da «Il Deposito» presenta diverse varianti lessicali di non poco conto, quali combà al posto di compa’ nel ritornello e «chi non beve vino si beve l’acqua pura» invece di «chi ha lavorato la beve l’acqua pura» (che non è proprio la stessa cosa) nella IV strofa.

Nel sito online del Collettivo folcloristico montano di Pistoia c’è una versione di Vien la primavera con l’inserimento di termini (ad esempio miei invece di bei riferito a fiori nella I strofa) e frasi che ne modificano il contesto storico di riferimento. In primo luogo, nel ritornello, compa’ viene sostituito con compar (che non è certo un sinonimo), forse per depotenziare politicamente il canto. Le prime due strofe rimangono uguali, la terza (quella del granturco) viene omessa e nella quarta e quinta le parole padrone e ricco vengono sostituite con un più generico “nobile” (il nobile beve il vino / noi si beve l’acqua pura; il nobile in poltrona / e noi qui a lavorare) che, anacronisticamente, nei rapporti di produzione e sfruttamento del lavoro, ben esplicitati nel canto, rimanderebbero a una condizione sette-ottocentesca (da ancien regime) piuttosto che borghese e novecentesca, anche contraddicendo il senso stesso del ritornello (coerentemente si è censurata anche la parola compa’).

Recentemente il periodico di Castell’Azzara «La Voce dell’Orso» ha avanzato la proposta di far diventare Vien la primavera l’inno comunale.

 

 

NOTE

[1] Ringrazio per la collaborazione il caro amico Corrado Barontini.

[2] Non mancano naturalmente attribuzioni infondate (in casi più rari l’anonimato nasconde i veri autori che hanno così voluto rendere più autentico e popolare un brano) e appropriazioni indebite (caso mai per motivi puramente veniali). 

[3] Castell’Azzara è un paese del grossetano situato tra l’Amiata e l’area dei tufi etruschi di Sorano e Pitigliano.

[4] Tra gli altri: Circolo Ottobre, Canzoniere proletario, Mantova 1972; Aa.Vv., Canzoniere della protesta 1 e 4 (La linea rossa della canzone), Edizioni del Gallo, Milano 1972 e 1973; P. Nissim, Canti della lotta dura, Roma 1974; L. Settimelli e L. Falavolti, Canti anarchici e Canti socialisti e comunisti, Roma 1972 e 1973; G. Vettori, Canti popolari italiani e Canzoni italiane di protesta, Roma 1974; S. Boldini, Il canto popolare strumento di comunicazione e di lotta, Roma 1975; S. Catanuto e F. Schirone, Il canto anarchico in Italia nell’Ottocento e nel Novecento, Roma 2009.

[5] Recentemente ristampato in CD da Ala bianca. Esplicativo anche il titolo: Fabbrica galera piazza.

[6] R. Cantagalli, Storia del fascismo fiorentino 1919/1925, Vallecchi editore, Firenze 1972, p. 84

[7] I miei bisnonni erano mezzadri al podere del Meoccio (dintorni di Manciano). Nel 1904 avevano partecipato, con la Lega dei braccianti (di cui la mia bisnonna era responsabile femminile), all’occupazioni delle terre incolte dei grandi latifondi.

[8] G. Giorgetti, Contadini e proprietari nell’Italia moderna, Einaudi, Torino 1974, p. 430.

[9] Cfr. H. Corsi, Le origini del fascismo nel grossetano (1919-1922), Edizioni Cinque lune, Roma 1973, pp. 92-99.

[10] M. Ruffini, Camere del lavoro, leghe e federazioni: l’organizzazione operaia e contadina in Maremma dal 1890 al 1921, in Aa.Vv., Le nostre orme. Per una storia del lavoro e delle organizzazioni operaie e contadine nel grossetano. Contributi per una storia sociale, Ediesse, Roma 1988, pp. 120-121.

[11] Cfr. P. V. Marzocchi, Passi in avanti. Pagine di storia sociale e politica in Maremma 1900-1970, Nuova CSF, Roma 1995, p. 24.

[12] Cfr. H. Corsi, Le origini del fascismo nel grossetano (1919-1922), op. cit., p. 96 e sg.

[13] A. Altobelli, Relazione al V congresso, p. 350, citata da I. Barbadoro, Storia del sindacalismo italiano. Dalla nascita al fascismo. I La Federterra, Ed. La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 315.

[14] Cfr. Inchiesta agraria Jacini. Monografia Ademollo.

[15] Cfr. Aa. Vv., L’altra Italia nelle bandiere dei lavoratori, Centro studi Piero Gobetti - Istituto storico della Resistenza in Piemonte, Torino 1980.

[16] M. Fresta, Canti popolari ed evoluzione della coscienza mezzadrile, in Clemente, Coppi, Fineschi, Fresta, Petrelli, Mezzadri, letterati, padroni, Sellerio, Palermo 1980, pp. 161-185.

[17] Si ringraziano Corrado Barontini e Marzio Mambrini per le informazioni e la collaborazione.

[18] C. Barontini - M. Vergari – F. Manfucci, Canti popolari in Maremma, Ed. Il Paese reale, Grosseto 1978, p. 146.

[19] L. Niccolai, Canti di maremme e di miniere, d’amore, vino e anarchia, p. 127.

[20] Cfr. recensione di Corrado Barontini nel n. 13 del 2008 di «Toscanafolk».