Avevo.  Diario di un cantastorie al tempo del Coronavirus

di Alessio Lega 

tratto da A Rivista anarchica n° 444 giugno 2020

Avevo.
Diario di un cantastorie al tempo del Coronavirus

Il 20 di febbraio mattina, mentre l'emergenza Coronavirus da ipotetico e lontano pericolo diventava tragica realtà, io partivo dalla mia casa di Milano, a cui non ho ancora fatto ritorno mentre vi sto scrivendo (10 di maggio).
Avevo un lavoro da musicista militante, consisteva, da oltre vent'anni, nel faticoso incollare alla sopravvivenza e alle bollette da pagare mille impegni militanti o per associazioni sempre squattrinate. Non è un'attività totalmente in perdita, volontaristica, a sapersi ben giostrare fra i rimborsi, i cachet, i dischi e i libri da vendere direttamente al pubblico (quanti ce ne stanno nel trolley, considerato che sulle spalle ti porti la chitarra e che viaggi in treno) ci si può campare senza troppe sicurezze, ma dato che da 11 anni è il mio solo lavoro, posso dirvi che non è impossibile se si possiede un pizzico di fatalismo.
Avevo spettacoli teatrali a vari stadi di elaborazione, alcuni hanno debuttato anni fa (come quello sulle canzoni di Franco Fortini o il fortunatissimo Bella Ciao) e seguono il loro percorso di quattro, cinque repliche l'anno. Poche ma importanti per il morale e per il sostentamento.
Avevo decine di progetti editoriali, di quell'editoria che si occupa di personaggi di nicchia, storie ribelli, vite di rivoluzionari, musica del mondo, che però vive di presentazioni: sono libri che non viaggiano da soli, ma devono essere portati in giro di presentazione in presentazione: sono appuntamenti, messaggi nella bottiglia, attorno cui discutere, incontrarsi.
Avevo un fitto intreccio di relazioni di amicizia, politiche, culturali, musicali. In primo luogo nella città che abito da trent'anni – appunto Milano – ma non poche sono quelle sparse per l'Italia o addirittura l'Europa, di gente che vedo due, tre volte l'anno o anche meno, ma alle quali mi lega un affetto profondo e uno scambio fecondo: qualcuna l'avete potuta vedere riflessa in taluni articoli-chiacchierate su questa stessa rivista (Dario Toccaceli o André Markowicz, per esempio).
Avevo l'amore, un rapporto fragile fra ansia ed entusiasmo, che necessitava di tanta cura. Ho capito ormai bene che la mia vita raminga e sul filo della sopravvivenza economica rende più fragile quella parte sempre più consistente alla mia età (47) che è la cura reciproca, l'esserci anche fisicamente... mentre io sono sempre distante, spesso distratto anche emotivamente, immerso in questo lavoro bellissimo. Poco affidabile agli occhi di una giovane madre impegnata in un lavoro nobilissimo (medico chirurgo).

Che ne sarà dello spettacolo

 

Non ho più niente, tutto questo ora è esploso, nel migliore dei casi sospeso senza termine definito.
Sono ormai più di due mesi che non lavoro, e quanto a tutto il resto, mi sembra di essere precipitato nella vita di un altro. Non voglio nemmeno lamentarmene troppo, sono relativamente un privilegiato, a me per ora basta tirare un po' la cinghia: avevo qualche (ma proprio “qualche”) spicciolo da parte, un pugno di monete che vedo via via assottigliarsi sotto il peso delle utenze (vero anche che mi son reso conto di quanto fosse dispendiosa la mia vita sempre in giro), soprattutto ho una famiglia in un luogo dove la pressione del contagio è meno pesante che in Lombardia.
Mi rendo ben conto che se io di certo non lavorando non guadagno nulla, ci sono fior di professionisti, piccoli commercianti, gestori di quei luoghi deputati proprio all'incontro – teatri, club, pub, osterie, circolo culturali, centri sociali, ma anche tante librerie nelle quali le presentazioni, i corsi, i laboratori sono una consistente fetta del fatturato – che fondono la ristorazione o la mescita con i piccoli spettacoli musicali, per i quali evidentemente l'asporto non può essere in alcun modo una soluzione. Ebbene tutti coloro che vivono in questo tipo di imprese non solo masticano la mia stessa frustrazione, ma continuano ad avere delle spese anche consistenti. Se la mia è depressione la loro è tragedia.
E poi, dovrebbe essere scontato ma a scanso di equivoci lo aggiungo, ci sono i morti, coloro che hanno sofferto, temuto, i loro parenti, i loro amici... noi di “A”, con la perdita del nostro caro Roberto Ambrosoli, che con Anarchik aveva creato una delle più divertenti e simpatiche icone dell'anarchia, ne sappiamo qualcosa. Essere vivi e in salute (facendo gli scongiuri) è già motivo di gioia.
Il 20 febbraio alle sett'albe mi muovevo da Milano alla volta di Vasto e poi di Foggia per due concerti basati sul repertorio di De André (d'altronde fra la fine di gennaio e quella di febbraio cadono l'anniversario della sua morte e della sua nascita). Da lì son risalito verso Livorno dove mi attendeva un intenso lavoro per portare in scena in meno di dieci giorni un intero spettacolo dedicato ai cento anni di Gianni Rodari, basato essenzialmente sulla riesecuzione delle canzoni del disco di Endrigo “Ci vuole un fiore”, più qualcuna di Virgilio Savona e qualcuna mia. Era uno spettacolo nato per un'intuizione improvvisa del mio collaboratore Rocco Marchi col regista e scrittore Michelangelo Ricci, da poco gestore con la sua compagnia di un meraviglioso spazio teatrale al centro di Livorno (e ovviamente dubito fortemente che possa sopravvivere a questa situazione). Ci mettiamo a lavorare forsennatamente mentre si addensa la pandemia, le notizie che giungono dalla Lombardia sono via via più allarmanti, noi le cogliamo nella bolla protettiva dei giorni in teatro. All'esecuzione dei brani che già avevamo frequentato in passato, si sovrappone l'azione scenica di due clown, Maurizio Muzzi e Maria Fiore. Intanto tutti i miei impegni milanesi – due concerti e un intervento su Fortini – vengono annullati, per riprogrammarli di lì a poco... forse... non si sa... tutto è possibile.
Le immagini dei supermercati saccheggiati ci convince che ci sia un immotivato panico, un'operazione giornalistica, anche perché il punto di vista istituzionale è tutt'altro che coerente e rigoroso (ricordate tutti l'ondivaga comunicazione fra la serrata e “Milano riparte”). Lo confesso, sono stato in principio fra quelli che ritenevano che si trattasse di un'assurda esagerazione, poi – contrariamente a tanti compagni – mi sono convinto che invece fosse una guaio oggettivamente assai grosso, benché molto mal gestito. Su questa sensazione, lo dico candidamente, pesava anche il terrore che il nostro lavoro su Rodari saltasse... non sapendo che di lì a poco sarebbe stata la vita tutta a saltare.
Riunioni preoccupate: per un teatro che deve autoalimentarsi, che non beneficia di alcun sussidio, saltare anche una sola replica può significare non riuscire a pagare l'affitto, col senno di poi sembrano sciocchezze, ma in quel momento la tensione si percepiva. Lo spettacolo che debuttava domenica primo marzo, mentre in Lombardia ed Emilia i teatri erano già chiusi, richiedeva una maggiore delicatezza essendo rivolto ai bambini. A Livorno stessa molti teatri si erano auto-sospesi, tanto più che alcune compagnie sarebbero dovute provenire dalla Lombardia (per la verità anch'io, ma come ho spiegato non ero a Milano già da dieci giorni). Alla fine decidiamo di andare in scena, non sapendo se sarà davanti a una platea deserta... invece, miracolo, il teatro è pieno di bimbi anche molto piccoli, in delirio, accompagnati dai genitori sorridenti, fors'anche perché quelle che cantavamo erano state le canzoni della loro infanzia. Finiamo in un trionfo di musica, colori e bolle di sapone, coi bambini che ci raggiungono e ci abbracciano, vogliono toccare tutto sul palco: oggi sembra fantascienza.

Televisione e paranoia

Passo da Napoli, la mia amica lì è chirurgo al Cardarelli e ancora non mi appare tanto allarmata, se non per il fatto che si annuncia già la chiusura delle scuole e degli asili, e lei è madre di un bambino di 3 anni di cui si occupa da sola.
Raggiungo Lecce il 2 marzo, non vedo i miei genitori da Natale e mi sembra che questa forzata inattività sia il momento buono per passare un po' di tempo con loro e con l'occasione riprendere un po' di attività di scrittura, sempre rimandata.
Da Lecce vi sto scrivendo tutt'ora, qui mi son trovato immerso nella paranoia della televisione (io non la posseggo), dei bollettini di guerra costanti, coi numeri delle vittime in crescita, coi servizi-sciacalli dalle corsie d'ospedale. In questa condizione soccombe il mio buonumore e mi rendo conto quasi subito dell'enorme pasticcio in cui siamo finiti e del fatto che dietro la comprensibile paura per la salute nostra e dei nostri cari, non c'è null'altro, nessuna preoccupazione per i confini della nostra libertà così gravemente erosa. Sarà un discorso lungo e complicato da fare, una volta fuori.
Ovviamente il mestiere del musicista in questo momento sembra un mestiere del tutto finito, senza alcun paracadute. Faccio presente che io non ho percepito nemmeno l'obolo di 600 euro destinato alle Partite Iva: ne avrebbero avuto diritto quei lavoratori dello spettacolo che potessero vantare almeno 30 versamenti sul fondo pensioni della categoria. Onestamente io non me ne sono mai preoccupato, faccio più di un centinaio di performance con la mia chitarra ogni anno, ma ben poche di queste avvengono nei luoghi deputati e nelle condizioni canoniche di spettacolo, e d'altronde questi versamenti non sarebbero mai tanti da garantirmi una qualsivoglia futura pensione. Cionondimeno ci sono una serie di situazioni dove il versamento viene fatto di prammatica, mi ero fatto i conti sul calendario dell'anno passato e mi pareva a spanne di arrivarci, ma basta che un paio si siano dimenticati e mi ritrovo al di sotto. Dunque nulla. La cifra, che avrebbe fatto senz'altro comodo, non è tale da influire, se le cose continuano così mi sa che dovrò piegarmi alla richiesta del reddito di cittadinanza... e almeno in quel caso speriamo bene.
Allo stato attuale ciò che più mi preoccupa è la condizione di paria invisibili nella quale ci troviamo io e tutti i miei colleghi. Nessuna idea di quando riprenderanno le attività concertistiche, di come potranno riprendere, della voglia che avrà il pubblico, anche al di fuori del momento del pericolo, di assembrarsi nei cabaret. Non è solo la musica di nicchia come quella che pratico, ma di tutto un modo di vivere la socialità e anche la politica, la questione è epocale.
Io per ora vedo come una vaga possibilità una ripresa dell'attività dal vivo: se con l'estate e fidando sulla buona salute, le persone cominceranno autonomamente a frequentare le piazze, i lungomare, lì si potrà arrivare con delle piccole amplificazioni e fare degli spettacoli in condizioni che permettano al pubblico di goderne senza appiccicarsi troppo. Teatro di strada, musica da cantastorie itineranti. Ma tutto è così incerto da apparirmi quasi disperato.

Le mie giornate sono scandite da una rigorosa routine, nella quale provo a studiare argomenti che rimandavo da tempo e che mi tengano la mente sufficientemente occupata da non sprofondare nella disperazione sin dalle prime ore del giorno: la filosofia di Spinoza, la mitologia classica, l'antropologia, la storiografia critica delle rivoluzioni.
Sono stati giorni duri, oltre al dolore stranito di non suonare in pubblico, la vicenda sentimentale cui accennavo è letteralmente implosa: sottoposta alla pressione tremenda cui gli operatori della sanità sono stati costretti, la mia chirurga napoletana si è concentrata sulla sopravvivenza del proprio equilibrio esistenziale, sulla fatica di gestire il suo bambino. Io non avevo più spazio nella sua vita. Non gliene voglio, la capisco, e il nostro rapporto era così fragile e disequilibrato da non riuscire a sopravvivere in questa temperie assurda. Buon vento, dottoressa. Io, come una sorta di regalo di addio, basandomi sulla sua testimonianza, ho scritto e cantato una canzone che prova a raccontare la condizione di quelli che con un po' di retorica chiamiamo “eroi”, e che ha avuto una certa entusiastica circolazione su web, e della quale vi presento il testo inedito.

Custodi (Ritratto di una dottoressa al tempo del Coronavirus)

Quando penso ai martiri e agli eroi
io penso a Durruti e Che Guevara
all'esempio giunto fino a noi
tutta quella lotta che rischiara,
penso a Rosa Luxemburg ribelle
a chi si è giocato in un minuto
nella solitudine le stelle
senza avere il tempo di un saluto:
corre, corre la locomotiva,
Gramsci nella cella che scriveva
e Pinelli sopra il motorino
Pino quel mattino che correva...
Poi mi viene in mente anche il sorriso
di una dottoressa che conosco
che operava nel Burkina Faso
quando andava in ferie ad ogni agosto
dieci anni e più di precariato
sola con un figlio ed una madre
lei che corre sempre senza fiato
e mangia uno yogurt per le strade
scappa nella metropolitana
strappa dalla morte i suoi fratelli
fa guerriglia ogni settimana
lotta coi suoi ferri al Cardarelli...
Poi ritorna a casa e dorme stretta
preso dall'asilo il suo bambino
tutta la sua vita nella fretta
del caffè che brontola al mattino.
Viene la paura del contagio
tutti chiusi nell'isolamento
il silenzio vuoto è un nubifragio
tutto un brulicare di cemento.
L'ospedale adesso è la frontiera
del bombardamento, la trincea
ogni bollettino della sera
mette la paura in ogni idea.
Questa dottoressa che continua
per coraggio o per disperazione
per coscienza, forza o disciplina
va sul fronte e aiuta le persone,
sa che può portare in sé il nemico
dentro la sua casa, fra i suoi cari:
gli incubi, i pericoli, il dolore
tutta quella lotta che rischiara
Quando pensi all'angelo custode
non pensare a gente sovrumana
pensa che ti sta schiacciando un piede
nella stessa metropolitana.

PS
Qui a Lecce il cane Nero – uno splendido trovatello dal pelo scurissimo, adottato quattro anni fa in un canile – si è auto-nominato “uomo di casa” di mia madre e mia sorella. Ha sempre nutrito per me la più franca antipatia, abbaiandomi furiosamente contro durante i miei giorni di visita in famiglia: mi scrutava quasi avesse le prove che io fossi un assassino intrufolatosi con pessime intenzioni, e controllava ogni mia minima mossa. In questo frangente, nel quale mi ha inopinatamente dovuto sopportare per un tempo infinito, si è però accorto che sono il primo a svegliarsi, e quindi sono io deputato a portarlo fuori per il bisognino, cosa che in fin dei conti è gradita sia a lui che a me (ricordate, durante la “fase uno” era un'ambitissima occasione di evasione dalla prigionia domestica).
All'inizio era una tragedia già solo mettergli il collare, dovevo chiedere aiuto a mia madre, poi piano piano il canide ha sciolto la riserva, prima solo per metà della giornata (la sera tornavo l'antico nemico, quasi io soffrissi del “mal di luna” che mi avrebbe trasformato in un lupo mannaro col calare delle tenebre). Ora è qualche giorno che al mattino, all'ora della sveglia, il suo muso affusolato si sporge nella mia camera come a dirmi: “Alessio, non ti pare il caso di renderti utile almeno a qualcosa, e portarmi fuori?”

Alessio Lega