La via salvifica dell'alchimia: il ritorno al divino.

 

Di Ivan Cuocolo

 

« L'alchimia è l'arte di liberare parti del cosmo dall'esistenza temporale e di raggiungere la perfezione, che per i metalli è l'oro, per l'uomo la longevità, poi l'immortalità e infine la redenzione[1] ». Lo scopo della Grande Opera alchemica è ottenere, quindi, attraverso la purificazione, l'incorruttibilità dei corpi, o, in altre parole, la ‟salvezzaˮ, intesa come liberazione della materia dalla schiavitù dello scorrere del tempo.

All'alchimia si accede col fare o meglio con l'operare. Non vi è dubbio che le operazioni alchemiche non fossero solo di natura simbolica: erano operazioni materiali, effettuate all'interno di laboratori, ma perseguivano fini molto diversi da quelli della chimica. Il chimico pratica l'osservazione esatta dei fenomeni fisico-chimici e di esperienze sistematiche e riproducibili; l'alchimista si sofferma invece sulla ‟passioneˮ, la ‟morteˮ e l' ‟unioneˮ delle sostanze, in quanto agenti di trasmutazione della Materia viva (attraverso la Pietra Filosofale) e della vita umana (attraverso l'Elixir Vitae). L'alchimia si poneva come scienza sacra, mentre la chimica si è costituita nel movimento che ha privato le Sostanze della loro sacralità. Ed esiste una irriducibile discontinuità fra il registro del sacro e quello dell'esperienza profana. Agli occhi dell'alchimista, la chimica costituisce una ‟caduta", proprio perché consisteva nella secolarizzazione di una operazione sacra.

L'alchimia ha, prima di tutto, oltre che questo aspetto pratico, un contenuto fortemente religioso, e la prospettiva di perfezione che ne è alla base ha un profondo legame con l'afflato soteriologico del cristianesimo delle origini, ribadito anche nel motivo paolino della prospettiva di salvezza per tutto il creato: « la creazione stessa […] nutre la speranza di essere liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio[2] » e, naturalmente, col dogma cristiano della resurrezione della carne.

Non per nulla, l'idea dell'opera alchemica come ‟via di ritorno" (remeatio) della creatura al Creatore, allo stato di purezza originario, viene manifestato simbolicamente nella figura, ricorrente anche nella mistica, di Adamo ‟prima del peccato", dove l'alchimista ‟collabora" alla creazione e alla salvezza, ma senza cadere nel peccato di superbia, illudendosi di potersi sostituire al Principio eterno.

Motivo fondamentale dell'ideologia alchemica è la fede nella reciproca trasmutabilità dei metalli, in base al presupposto che al loro fondamento vi sia un’identica comune materia prima[3], alla quale i metalli possono essere ricondotti per essere trasformati e dotati di altre qualità. Questo processo fa capo ad un complesso sfondo metafisico-cosmologico, di matrice filosofica, in cui prevale il tema della radicale unità del tutto e dove l’operazione alchemica non è altro che la riproduzione dell’originario e naturale processo creativo. Come nell'ideologia magica, tutta la realtà è retta da simpatie e antipatie che mettono in comunicazione i luoghi anche più remoti della creazione, conoscendo questi legami nascosti colui che compie l'opera può captarli e incanalarli, indirizzandoli in una determinata direzione, ma sempre senza alterarne il corso naturale. Questa concezione panvitalistica è anche alla base della simbologia sessuale presente nei testi alchemici: dall'ermafrodito simbolo della materia prima al vaso filosofale figurato come ‟utero". Si è affermata col tempo l'idea dell'esistenza di due ‟poli", lo zolfo e il mercurio, all'interno di una rete di analogie e di opposizioni. Soprattutto in ambito cristiano, la ricerca della Grande Opera, in quanto ricerca di salvezza e purificazione, diviene ricerca di Cristo e ritorno al principio creatore.

 

Nel corso della storia gli alchimisti hanno investigato la materia, sperimentando empiricamente e formulando teorie per lo più su base filosofica[4], e, in quanto progetto di salvezza della materia e del corpo, l'alchimia ha mostrato una certa vicinanza anche con alcune tematiche cabalistiche[5]. C'è un forte sfondo neoplatonico che sottende l'ideologia alchemica: in quel circolo eterno che vede dall'Uno divino discendere l'intera Creazione (Emanatio), si perviene nell'animo dell'uomo a quella Conversio (conversione) che, tramite l'Opus o Grande Opera, dà inizio al processo di Remeatio (ritorno) alla Fonte eterna dell'essere.

Questa grande visione cosmica, da cui fu influenzato anche Zosimo (fine III - inizi IV sec. d.C.), autore di alcuni tra i primi testi alchemici in lingua greca, viene tenuta ferma da tutta la tradizione neoplatonica, e, tra gli altri, da Giovanni Scoto Eurigena (IX sec. d.C.), che concepisce  l'essere umano, in virtù del suo lume razionale, come luogo di quella ‟conversione" del ciclo divino, da cui inizia il movimento di ritorno della creatura verso il Creatore[6].

La purificazione/perfezione materiale veniva cercata attraverso l'azione di un preparato - la Pietra filosofale (Lapis philosophorum) per i metalli e l'Elixir di vita per gli esseri umani -, mentre il perfezionamento spirituale sbocciava da una rivelazione interiore o da un'illuminazione sapienziale, come per la gnosi nelle pratiche ellenistiche e occidentali. Siamo di fronte ad un unico processo in cui ‟materia" e ‟spirito" sono due facce di una sola entità, in cui la ricerca di perfezione dell'alchimia, anche nella sua sperimentazione empirico-scientifica, non si distacca mai dalla sfera religiosa e spirituale. L'alchimia - non va dimenticato - non può prescindere dalla trasformazione della materia, ma nemmeno dalla purificazione spirituale dell'operante.

C. G. Jung ha mostrato come il simbolismo dei processi alchemici si ritrovi in certe immagini oniriche. Verso la fine degli anni venti Jung scopre, infatti, singolari affinità tra antichi simboli cinesi e i sogni dei suoi pazienti: comincia così a studiare i testi degli alchimisti. Dopo quindici anni di lavoro pubblica i suoi studi, che restano fra le sue più affascinanti scoperte. Le sue osservazioni non riguardano unicamente la psicologia del profondo, ma confermano indirettamente la funzione soteriologica che pare costitutiva dell'alchimia[7]. La tradizione alchimistica e la pratica analitica hanno in comune il tentativo di creare una realtà nuova e superiore: da una parte l'oro, la pietra filosofale, dall'altra la ‟presa di coscienza" della psicologia moderna. L'alchimia è espressione di una pulsione a trasformare la materia prima dell'esperienza in conoscenza: vuole portare alla luce il lato divino che dorme nell'oscurità degli istinti.

L'alchimia, ha il suo fondamento ideale nella concezione atavica che le sostanze minerali ‟crescano", ‟maturino" come ‟embrioni" nel ventre della Terra Madre, partecipando alla sua sacralità, per cui la metallurgia delle origini assume un carattere che potremmo definire ‟ostetrico". Colui che con arte consapevole ‟estrae" i minerali dalla Madre Terra interviene nello sviluppo di questi embrioni sotterranei, senza incidere sui ritmi naturali, semplicemente velocizzandone la naturale crescita, collaborando all'opera della Natura, aiutandola a ‟partorire più in fretta". Così come la magia naturale, essa non altera i processi naturali, ma partecipa ad essi, ne scopre i legami nascosti, ne accelera e facilita il corso.

È probabile che i riti iniziatici e i ‟segreti del lavoro" dei fabbri cinesi, fra i primi alchimisti noti, costituiscano parte integrante delle tradizioni ereditate dal taoismo e dall'alchimia cinese[8]. Il segreto di questa esperienza, di cui essi detenevano il monopolio, si trasmise attraverso i riti di iniziazione ai mestieri: essi lavoravano su una Materia considerata viva e sacra, in cui la loro opera mirava alla sua ‟trasmutazione", al suo ‟perfezionamento" e ‟purificazione", in cui l'intervento dell'uomo si accostava al ritmo temporale specifico delle Sostanze minerali ‟viventi".

Elementi di cultura alchemica sono presenti, infatti, sia nell’antica civiltà cinese sia in quella indiana, ma l’alchimia che ha maggiormente influenzato la cultura occidentale nacque ad Alessandria, nell'Egitto ellenistico del I secolo d.C., dove le dottrine alchimistiche si svilupparono secondo tre fasi: una prima fase che vedeva l’alchimia come ‟tecnica‟, basata sulle pratiche artigianali dell’Egitto pregreco; una fase successiva in cui l’alchimia assumeva il ruolo di ‟filosofia‟, basata sulla rielaborazione delle teorie platoniche e aristoteliche sulla materia prima e infine l’alchimia come ‟mistica‟, in cui si sarebbe operata una fusione tra il precedente patrimonio filosofico e la gnosi ermetica.

Questo tentativo di trasmutazione dei corpi è fin dall'origine collegato alla mistica ricerca della salvezza e della redenzione:preoccupazione cardine nell'età ellenistica, quando culti religiosi e misterici d'origine classica si intrecciavano con la predicazione del nuovo verbo evangelico, con le interpretazioni gnostiche del messaggio cristiano e con la diffusione degli scritti ermetici, nei quali l'antica religione egiziana continuava a sopravvivere[9].

Durante il III secolo d.C. sempre ad Alessandria vengono introdotte tecniche di lavorazione dei metalli diverse da quelle tradizionali e si fa strada l'idea che la stessa ‟purificazione" aurea dei metalli sia legata alla parallela ‟purificazione" salvifica dell'operante. Sarà Zosimo (fine III - inizi IV sec. d.C.) che metterà in relazione le dottrine soteriologiche ermetiche e gnostiche con il processo di trasformazione dei corpi in spiriti e degli spiriti in corpi, come - secondo quanto lui stesso ci narra - aveva appreso da Maria[10], l'alchimista ebrea, a cui risalgono sia la concezione dei metalli come composti di corpo, spirito e anima - analogamente agli esseri viventi -, sia l'invenzione dei primi strumenti alchemici. Negli scritti di Zosimo già riscontriamo l'esistenza di pratiche e metodologie diverse, così come la secolare polemica fra alchimisti e ‟ciarlatani" che caratterizzerà l'intera vicenda dell'alchimia.

L'inglobamento dell'alchimia all'interno dell'orizzonte filosofico fa sì che nel VII secolo la ricerca sulle "tinture" dei metalli vada sempre più collegandosi alla filosofia neoplatonica, sviluppando un vero e proprio linguaggio simbolico, e interpretando le operazioni alchemiche come termini nel rapporto fra l'Uno e il molteplice. Stefano di Alessandria, filosofo, matematico, astronomo e alchimista, attivo nel VII secolo d.C. durante il regno dell'imperatore Eraclio I, è il tramite, forse principale, del passaggio delle conoscenze alchemiche al mondo islamico, che con il primo califfo omayyade, Khalid ibn Yazid ibn Mu'awiya, manifestò un forte interesse per quella che i bizantini chiamavano « arte sacra » o « fabbricazione dell'oro » (χρυσοποιία).

Attraverso il centro culturale di Alessandria e la cultura siriaca, l’alchimia ellenistica viene trasmessa alla civiltà islamica, il cui fondatore viene considerato Giābir ibn Ḥayyān (vissuto, probabilmente, nel sec. VIII), il Geber della tradizione medievale latina. Fu proprio attraverso gli Arabi che l’Occidente riprese, successivamente, di nuovo contatto con la tradizione alchimistica greca. Nel mondo islamico la connessione fra alchimia ed emanatismo neoplatonico subisce un profondo cambiamento con l'introduzione di materiali per le operazioni di laboratorio d'origine non greca, provenienti in parte dalla civiltà harraniana[11].

Nell'Occidente del XII secolo la trasmissione di alcune opere, in primis le Meteore di Aristotele, aveva stimolato la nascita di un'alchimia latina. Tuttavia i primi testi originali risalgono alla prima metà del Duecento. La nuova disciplina giunse in Europa assieme al corpus aristotelico, che si andava affermando come nuovo sapere filosofico-naturalistico. Le ricerche alchemiche non vi trovavano, però, una collocazione chiara: nelle Meteore, in cui Aristotele analizza i fenomeni naturali del mondo sublunare, i capitoli De mineralibus ‒ in realtà una traduzione di un'opera di Avicenna, il De congelatione et conglutinatione lapidum, aggiunta solo alla fine del XII secolo ‒ tralasciano alcuni concetti alchemici fondamentali, come la scala dei metalli e la correlazione fra questi ultimi e i pianeti, negando la possibilità di trasmutazione della materia. In questa concezione l'arte viene considerata più debole della natura, per cui, per ottenere una vera trasmutazione degli elementi, gli alchimisti dovrebbero modificarne la struttura elementare, riportandoli ai loro costituenti primari e dunque: « sciant artifices alkimie species transmutari non posse[12] ».

Parimenti complesso si rivelò la sistemazione dell'alchimia all'interno del sistema classificatorio degli studi, in quanto essa rivestiva una posizione intermedia fra teoria e pratica senza potersi ridurre definitivamente all'una o all'altra.

Nelle traduzioni latine dall'arabo troviamo spesso il prodotto finale dell'opus dell'alchimista indicato come ‟elixir[13]", termine di incerta etimologia. Si è anche ipotizzato potesse derivare da un termine greco indicante una sostanza per tingere il metallo. La trasmutazione alchemica dei metalli, tuttavia implica un concetto ben più alto di purificazione e perfezione della materia, concetto che negli scritti di epoca ellenistica era stato spesso considerato una metafora della salvezza spirituale. Nell'alchimia islamica, invece, tramite una significativa influenza del pensiero taoista (cinese) ed indiano, l'elixir diviene l'elemento in grado di conferire l'immortalità corporea[14]. In Occidente, solo agli inizi del XIV secolo troviamo dei testi alchemici (soprattutto quelli attribuiti ai catalani Raimondo Lullo e ad Arnaldo da Villanova) che parlano esplicitamente di elixir, prodotto finale dell'opus in grado di conferire la perfezione materiale ai metalli e al corpo umano, attraverso il riequilibrio perfetto di tutti i corpi con cui viene a contatto. Anche per questo motivo l'elixir viene spesso identificato come un farmaco portentoso, la cui produzione può essere ottenuta sia con la tecnica della distillazione, che si ritiene renda possibile una scomposizione più profonda dei corpi materiali nei quattro elementi originari, sia tramite una teoria della materia elaborata per la prima volta da Ruggero Bacone e ripresa dagli alchimisti del primo '300. L'unione della distillazione farmacologica con la dottrina alchemica dell'elixir avvenne ad opera di Giovanni da Rupescissa (1310 c. - 1365), che nel suo Liber de consideratione quintae essentiae (1351ca.) descrisse la distillazione dell'alcol del vino per ottenere medicine miracolose, fra cui l'oro potabile, a cui conferì il nome di Quintessenza.

Nei secoli XV e XVI si ebbe un ulteriore incremento delle edizioni sia di testi tradotti dal greco o dall’arabo, sia di opere originali. Sarà con Paracelso che l’alchimia assumerà il carattere di ‟arte" medica, considerata come un sapere operativo totale: l’alchimia è l'arte capace di svelare i misteri e i nessi nascosti della natura (entità animata e vivente, in continua trasmutazione) e di correggerli, canalizzarli, velocizzare il loro naturale compimento e quindi di ristabilire il corretto rapporto uomo-natura in cui consiste lo stato di salute. La distinzione fra i contenuti di laboratorio e quelli simbolico-spirituali affonda le sue radici già negli sviluppi rinascimentali e barocchi, come il celebre Della trasmutazione metallica sogni tre di Giovan Battista Nazzari (1564) e l'Atalanta fugiens di Michael Maier (1618), dove i contenuti operativi sono completamente stereotipati. La nascita della chimica segnò, lungo il XVII secolo, il tramonto dell’alchimia per quanto essa aveva di occulto e di iniziatico, trasferendosi nella poesia e nelle arti visive, in cui molti artisti, soprattutto fra Otto e Novecento, fanno riferimento a idee o a motivi iconologici di origine alchemica[15].

Appare evidente, a conclusione di questo studio, che elemento fondante dell'alchimia sia la sua pretesa di purificazione e salvezza, attraverso la realizzazione concreta di un ‟catalizzatore", la pietra filosofale o l'elixir, che permetta alla materia e all'operante di liberarsi del fardello di una materia non pura, non prima e dalla schiavitù allo scorrere del tempo. Attraverso la purificazione, l'uomo e la materia possono tornare alla loro originaria purezza e, soprattutto nelle visioni maggiormente influenzate dalla filosofia ‟neoplatonica", ripercorrere a ritroso la strada che li riconduce alla originaria fonte divina.

Negli ultimi tre secoli, la razionalità scientifica europea si è impegnata in uno sforzo immane per tentare di analizzare, conquistare e dominare il mondo. Sul piano ideologico, questo trionfo della razionalità scientifica si è tradotto nella (talvolta cieca) fiducia in un progresso infinito e nella convinzione che ‟moderno" sia sinonimo di verità del sapere e di dignità della condizione umana. Eppure i danni materiali e spirituali di simile atteggiamento sono evidenti a tutti; allo stesso tempo sono sempre esistite, ed esistono tutt'ora, società e culture sofisticate che, senza poter rivendicare alcun merito scientifico (nel senso moderno del termine) né alcuna attitudine per le produzioni industriali, avevano elaborato sistemi metafisici, morali e perfino economici perfettamente validi. La realtà e la grandezza di questi valori culturali "diversi" potrebbero far vacillare le certezze della civiltà occidentale: i suoi rappresentanti (per non dire i suoi "dirigenti") potrebbero dover rendere conto se la loro gestione, che potrebbe perdere il suo primato e la sua caratteristica esclusiva di ‟unica" cultura possibile, valesse effettivamente gli sforzi, i sacrifici e i danni che ha richiesto.



[1] H. Sheppard, XVI Congresso Internazionale di Storia della scienza, tenuto a Bucarest nel 1981; la si può leggere in H. J. Sheppard, European Alchemy in the Context of a Universal Definition. In: C. Meinel, Die Alchemie in der euopäischen Kultur- und Wissenschaftsgeschichte, S. 13-17, Wiesbaden 1986.

[2] Rm 8, 18-21.

[3] Indicata con vari nomi, generalmente ‟acqua divina", ‟argento vivo", ‟pietra filosofale". 

[4] Cfr. L'alchimie et ses racines philosophiques. La tradition greque et la tradition arabe, C. Viano dir., Librairie Philosophique J. Vrin, Paris 2005.

[5] Sul rapporto fra l'alchimia e la tradizione cabalistica, attestato nella tradizione occidentale a partire dal Rinascimento, cfr. F. Secret, Hermétisme et kabbale, Bibliopolis, Napoli 1992; G. Scholem, Alchemie und Kabbala; A. Schwarz, Cabbalà e alchimia, che indaga il fondamento più che lo sviluppo storico. Al rapporto tra alchimia e cultura ebraica è dedicato il volume di Patai, Alchimia ebraica.

[6] Cfr. De divisione naturae

[7] Cfr. C. G. Jung, Psicologia e alchimia, trad. di Roberto Bazlen, Bollati Boringhieri,  Torino 2006.

[8] J. Needman, Science and Civilization in China, CUP 1954 e ss., dove è anche esaminata l'ipotesi della derivazione dell'elixir nell'alchimia islamica (e poi occidentale) dalla ricerca taoista della lunga vita (macrobiotics); cfr. J. Needham, Il concetto di elixir e la medicina su base chimica in Oriente e in Occidente, "Acta Medicae Historiae Patavinae" 19 (1985), pp. 7-41

 

[9] Sulla koinè religiosa dei primi secoli d.C., cfr. A. J. Festugière, Hermétisme et mystique payenne (1967), trad. it. Ermetismo e mistica pagana, Il melangolo, Genova 1991; per il significato religioso dell'ermetismo, il cui rapporto con l'alchimia sussiste fin dai testi di Zosimo e continua sempre più stretto, finché i due termini divengono quasi sinonimi in età moderna, cfr. Fowden, The Egyptian Hermes.

[10] Secondo una controversa etimologia, l'espressione ‟bagnomaria" (Balneum Mariae) deriverebbe proprio dall'alchimista ebrea menzionata da Zosimo, la quale, per riprodurre le condizioni naturali di lento riscaldamento dei preparati, si sarebbe servita proprio del noto procedimento.

[11] Ad Harran, città nel sud-est della Turchia (l'antica Carrhae romana), conquistata dal califfo al-Ma'mun nell'876, una religione astrale di origine orientale si era incontrata con l'eredità filosofica classica e, secondo quanto racconta una leggenda sulla conquista islamica, tale sintesi venne attribuita dagli harratiani ai "libri sacri" di Ermete (cfr. T. M. Green, The City of the Moon God. Religious Traditions of Harran, Brill, Leiden-New York-Koln 1992.

[12] R. Halleux, L'alchimia, in Federico II e le scienze, a cura di P. Toubert-A. Paravicini Bagliani, Palermo 1994, pp. 152-161. (trad.: « Sappiano gli artefici dell'alchimia che le specie non possono essere trasmutate »).

[13] Cfr. W. Theisen, John Dastin: the alchemist as co-creator, in "Ambix" 38 (1991), pp. 73-78; M. Pereira, Un tesoro inestimabile: elixir e 'prolongatio vitae' nell'alchimia del '300, "Micrologus. Natura, scienze e società medievali" 1 (1992), pp. 161-187.

[14] Cfr. J. Needham, Il concetto di elixir e la medicina su base chimica in Oriente e in Occidente, in "Acta Medicae Historiae Patavinae" 19 (1985), pp. 7-41

[15] Cfr. Bonardel, Philosophie de l'alchimie; Calvesi, Arte e alchimia; Schwarz, L'immaginazione alchemica.